La rivoluzione culturale che ha portato è pensare che le barriere non sono solo quelle architettoniche per le persone con disabilità motoria, ma anche sensoriali. Ogni disabilità ha le sue specifiche caratteristiche. Le persone sorde, ad esempio, hanno più problemi di comunicazione rispetto agli altri tipi di disabili.
Specificità diverse e, di conseguenze, bisogni differenti: le battaglie per l’accesso ai luoghi, ad esempio, sono state portate avanti dai disabili motori. Quest’ultimi in un museo, una volta superate le barriere di accesso, hanno libero accesso al patrimonio culturale esposto perché un museo è fatto per essere guardato. I sordi, invece, entrano e guardano, hanno più che altro un problema di comunicazione e di interpretazione. A fare la differenza sono i supporti di informazione e comunicazione.
Per gli psichici il discorso è completamente diverso: c’è un problema di accoglienza e di partecipazione con attività laboratori ad hoc e a fare la differenza è la formazione del personale.
I ciechi sono il problema più serio per la fruizione del museo perché possono andare dovunque ma non riescono a fruire del patrimonio esposto. Gli unici due sensi capaci di farci cogliere le forme sono la vista e il tatto. Se il museo è progettato sulla possibilità di vedere, come fa un cieco? L’unica soluzione è toccare.
Molto spesso i musei considerano questo aspetto secondario. Secondo la Dichiarazione dei Diritti umani del 1988, ogni essere umano ha il diritto alla cultura quale patrimonio dell’umanità e parte integrante dell’essere umano. Questo è un punto cruciale: il primo passo è convincersi che l’accessibilità è una necessità e, di conseguenza, trovare un modo per attivarla. La priorità, infatti, è ancora una volta culturale: è necessario capire che, anche con budget ridotti, un modo per affrontare la questione e dare delle risposte si può trovare. Bastano a volte piccoli accorgimenti, come la gestione dell’accoglienza. La persona disabile deve essere innanzitutto accolta nel modo più adatto, facendola sentire a casa e ascoltando le sue esigenze senza farla sentire “diversa”. Questo non è un costo impossibile perché la formazione è una pratica già avviata nelle strutture museali e andrebbe solo integrata con quella sull’inclusione e l’accessibilità.
Per quanto riguarda la fruizione, il punto non è diventare un museo “tattile”, ma far sì che in ogni museo ci sia la possibilità di conoscere le opere attraverso il tatto. Questo significa sfatare il falso mito secondo cui gli oggetti, se toccati, vengono deteriorati in modo irreparabile. Il divieto a toccare nei musei può essere accettato solo se motivato. Il bronzo, ad esempio, è un materiale che deve essere toccato perché è un materiale che vive meglio se toccato.
Il lungo discorso di Grassini ha toccato non solo le corde dell’accessibilità e l’inclusione, ma quelle più universali dell’esperienza estetica e della cultura quale valore fondante dell’essere umano. Le persone con disabilità, come tutti d’altronde, spesso visitano un museo insieme ai loro amici ed è insieme a loro che vogliono poter fruire del patrimonio museale. La socialità, infatti, è un valore fondante dell’esperienza culturale e questo può essere favorito grazie ad una specifica formazione del personale, mirata all’accoglienza delle persone con disabilità. D’altro canto, l’esperienza estetica non è solo conoscenza perché ci coinvolge anche sul piano emotivo ed è influenzata anche dalle persone che ci accompagnano. La socialità è quindi parte integrante della fruizione culturale e deve essere preservata.
Allo stesso tempo, il piacere della scoperta estetica è sempre un fatto soggettivo. La nostra civiltà ha scelto la vista ma la natura ci ha dato 5 sensi e se vogliamo conoscerla dobbiamo usarli tutti. Ogni senso ha la sua specificità e non sono intercambiabili. Da un punto di vista pratico, le informazioni che percepiamo tramite la vista non posso essere percepite allo stesso modo con il tatto ma si possono solo tradurre in indicazioni utili che ne supportano la comprensione. Questa è la funziona vicariante.
C’è un ostracismo nei confronti del tatto ma è culturale. In India, ad esempio, la forma di espressione più usata è la scultura e lì si può toccare tutto. Alcune caratteristiche sono peculiari di un senso o da un altro e questo vale anche per la piacevolezza delle singole sensazioni.
Partendo da una stimolazione sensoriale si attivano una serie di “corto circuiti” che non sono necessari, ma instaurano un rapporto soggettivo con quello che si conosce ed è una forma di libertà dell’esperienza estetica. Partendo da questo presupposto si innescano, come un detonatore che fa esplodere una bomba, associazioni e ricordi che sono personali, esistenziali e culturali.
In sintesi, è un bene anche per i normodotati sviluppare il tatto, perché arricchisce l’esperienza estetica di un elemento emozionale molto forte.